Anche se "si volesse ipotizzare un
interessamento di Fontana e quindi un trattamento di favore per
l'impresa gestita dal cognato, la regolarità della procedura di
scelta del contraente e della conclusione del contratto, elimina
ogni residuo dubbio in merito". E agli atti "non si rinviene la
prova del contestato preventivo accordo" tra Attilio Fontana e
Andrea Dini "avente ad oggetto le sorti e le modalità della
fornitura".
Lo scrive la Corte d'Appello di Milano nelle motivazioni
della sentenza con cui, il 10 luglio, ha confermato i
proscioglimenti, con la formula "perché il fatto non sussiste",
per il Governatore lombardo e altri quattro indagati, tra cui il
cognato Dini, per la vicenda, che tante polemiche politiche
aveva suscitato, di una fornitura di camici e altri dispositivi
di protezione, all'epoca della prima ondata Covid, poi
trasformata in donazione. Un caso che, con la conferma della
Corte (Manzi-Buonamici-Siclari) del verdetto "di non luogo a
procedere" del gup Chiara Valori in udienza preliminare, si è
chiuso definitivamente dopo oltre 3 anni.
Non vi è "prova alcuna", evidenziano i giudici, che Fontana,
difeso dai legali Jacopo Pensa e Federico Papa, "fosse stato
messo a conoscenza del fatto che Dama spa", società del cognato,
"aveva concluso un contratto di fornitura onerosa con Aria spa
(e quindi con Regione Lombardia)". L'intervento, "successivo, di
Fontana", si legge ancora, "ha indotto Dini, dopo una prima
consegna di merce, a trasformare la fornitura onerosa in
donazione". E quella "novazione contrattuale", come aveva già
scritto il gup, fu "operata in chiaro" e "non simulata".
Assolti dall'accusa di frode in pubbliche forniture, assieme
a Fontana e Dini, difeso dagli avvocati Giuseppe Iannaccone,
Riccardo Lugaro e Caterina Fatta, anche Filippo Bongiovanni e
Carmen Schweigl, ex dg e dirigente di Aria, difesi dal legale
Domenico Aiello, e il vicesegretario generale di Regione
Lombardia, Pier Attilio Superti, assistito dai legali Pietro
Gabriele Roveda e Gianluigi Bonifati.
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