MANUELA DVIRI: 'UN MONDO SENZA NOI' (PIEMME; PP.392; 17,50 EURO).
''Se ce l'hanno fatta loro, ce la faremo anche noi''. Mentre con la mano sottolinea le parole, lo sguardo di Manuela Dviri, italiana di Israele, è fiducioso. Come se si appoggiasse alla stessa forza che dovettero darsi i suoi genitori e i suoi nonni travolti dalle leggi razziste del 1938. La stessa a cui e' dovuta ricorrere lei l'estate scorsa, proprio mentre riannodava le sue vicende familiari, davanti al conflitto tra Israele e Hamas a Gaza. Oggi la storia della sua famiglia è diventata un volume che esce in occasione del Giorno della Memoria. ''Non è un libro sulla Shoah. O almeno - spiega davanti ad un caffè in un bar di Tel Aviv - non nel senso tradizionale del termine.
Nessuno dei miei e' morto nelle camere a gas. E' un libro invece sulle vite spezzate dalla Shoah e mai recuperate fino in fondo; sulle piccole-grandi tragedie di tutti i giorni in quei sette anni, dal 1938 al 1945, che hanno sconvolto gente normale mai tornata come prima''.
Lo spazio geografico della memoria di Manuela Dviri, nata Vitali Norsa, si snoda nel libro tra Ragusa (oggi Dubrovnik), Ancona, Ferrara, Ascoli Piceno e poi Padova. In mezzo c'e' la storia della famiglia materna, i Russi, che nel capoluogo marchigiano fondano, grazie forse al ginseng, quella che diventera' in 100 anni la seconda casa farmaceutica italiana.
Oppure, quella di un banco di credito a Ferrara, di una bellissima antenata dal nome Amalia, moglie di un deputato ex garibaldino. Sui Russi e i Vitali Norsa, ''normali italiani di religione ebraica che vivevano vite distrattamente felici'', si abbattono infine le leggi razziali e la loro infinita violenza e stupidita'. ''Per avviare il processo che si e' concluso con la morte di 6 milioni di persone - racconta Dviri - non sono occorsi solo i 'malvagi' ma anche i normali, quelli 'per bene'.
C'e' voluto un tradimento, un voltare gli occhi per non vedere''. E' questo aspetto che Dviri - quando e' invitata nelle scuole italiane, come di recente a Palermo - vuole soprattutto svelare ai giovani. ''Dico loro che all'epoca di quelle leggi molti non erano d'accordo con Mussolini ma - sottolinea - lo lasciarono fare perche' era piu' facile cosi' e tanto piu' comodo. Ci vuole invece forza per non farsi trascinare, per restare individuo pensante. Soprattutto quando non e' facile.
Spesso sono il conformismo e la paura a prevalere''. E proprio oggi, di fronte alle stragi di Charlie Hebdo e al supermercato kasher di Parigi, che ''occorre non arrendersi. E non rinunciare ai propri valori e al futuro che vogliamo''. Del resto, come mai potrebbe essere un mondo senza questi valori? Su questo filo conduttore si snoda il libro di Dviri, nato sulla scia di un articolo scritto due anni per 'Vanity Fair. In copertina una foto di famiglia che ritrae sei bambini sulla spiaggia al mare negli anni venti: ognuno di loro, nei fatidici sette anni, subira' le conseguenze di una ideologia di ferro che ha preteso di dividere l'umanita' tra buoni e cattivi. ''Ho voluto raccontare - dice ancora Dviri, che nel 1998 ha perso un figlio di 20 anni nella guerra in Libano con gli Hezbollah - le ferite profonde di questi bambini diventati adulti. Come quella di mio madre e del tradimento che ha subito quando e' stata cacciata da scuola. Oppure quelle di mio padre, lui ebreo italiano cosi' attaccato al proprio paese da non essere mai riuscito a trasferirsi in Israele. Ma che ha fatto di tutto per mandarci me e mia sorella. Ecco, il libro e' una grande storia italiana''.
''Una storia di emancipazione - nota Gad Lerner che firma la prefazione - sempre a rischio di precipitare quando meno te lo aspetti''. Ma lo sconforto non è pane per Dviri, come narra benissimo il suo libro.
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