C'è una naturale resistenza nell'apprezzare un 'classico' quando è rivisitato con troppa libertà.
Ci si sente traditi, tanto più se parliamo di una favola come PINOCCHIO, ma la resistenza iniziale che si ha di fronte a questa edizione della favola di Collodi, firmata da Guillermo del Toro e dal genio della stop-motion Mark Gustafson, si affievolisce poco a poco fino a quando, conquistati dal film, si è felici e ci si commuove.
Eppure il PINOCCHIO di Del Toro - dal 4 dicembre in cinema
selezionati e dal 9 dicembre su Netflix - sconvolge gran parte
della storia tranne l'impianto iniziatico del libro su cui c'è
già un'ampia letteratura.
Intanto, il burattino è il frutto di un'ubriacatura di Geppetto
che neppure lo rifinisce, è insomma un 'non finito' (come è nel
disegno di Gris Grimly) e anche il frutto del dolore di questo
già anziano falegname che ha perduto Carlo, l'amato figlio di
dieci anni, e spera che un burattino possa alleviare la sua
pena.
E non finiscono qui le novità di questo film da Oscar a tratti
declinato a musical: il Grillo parlante è uno scrittore alle
prese con la sua autobiografia, ma sempre investito della sua
missione educatrice; la storia poi si svolge durante il fascismo
con tanto di Duce che assiste allo spettacolo di burattini del
perfido Conte Volpe (Mangiafuoco).
Lo stesso Lucignolo è figlio del podestà fascista che lo vuole
virile come lui tanto da partecipare, come Pinocchio, alle
esercitazioni dei Balilla per l'imminente guerra.
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