AHMED ALNAOUQ E PAM BAILEY, 'NON SIAMO NUMERI - LE VOCI DEI GIOVANI DI GAZA' (NUTRIMENTI, PP. 368, 18 EURO).
Ci sono cose della guerra che noi - per la maggior parte appartenenti a generazioni che non l'hanno mai vissuta - non capiamo. Possiamo conoscere il numero di bombardamenti, morti in battaglia e decessi civili. Potremmo pure restare aggiornati sulle missioni umanitarie e, perché no, guardare qualche approfondito documentario o reportage dal terreno di battaglia.
Ci sono cose, però, che non possono essere così facilmente raccontate: la quotidianità del dramma, che esaspera lentamente.
Le prospettive, che si sgretolano insieme ai muri delle abitazioni e sono sotterrate con amici, parenti, conoscenti. Il libro 'Non siamo numeri' (Nutrimenti), a cura di Ahmed Alnaouq e Pam Bailey (e traduzione di Clara Serretta), in uscita il 9 maggio, cerca di colmare questa voragine.
Frutto dell'omonimo progetto (in inglese, 'We Are Not Numbers') che dal 2015 raccoglie le storie dei giovani gazawi cresciuti durante le crisi in Medio Oriente, al suo interno - dopo la prefazione di Cecilia Strada - raccoglie più di 70 racconti di autori palestinesi tra i 18 e i 29 anni che scrivono di un conflitto che non è iniziato il 7 ottobre e da tempo immemore provoca traumi, perdite e sconfitte in ogni fazione. Il progetto è nato dall'amicizia tra Alnaouq e Bailey e dalla scrittura di un racconto a quattro mani sull'esperienza del primo, che si trova in apertura del libro. È la vicenda del fratello, Ayman Alnaouq, "ragazzo d'oro" ucciso da un missile perché, dopo una vita passata a vedere sangue e morte, aveva deciso di unirsi a un braccio armato di palestinesi. Alnaouq non vuole giustificare il fratello, non è quello il punto. Il punto è la disperazione.
"Quattro autori di questo libro erano già stati ammazzati nel momento in cui si rivedeva il testo - scrive Strada nella prefazione -. Uno ha perso ventun membri della sua famiglia in un solo attacco. In un racconto compare un ospedale che non esiste più, dopo le bombe dell'ultimo anno: è un libro che cambia tra le mani mentre lo leggi, perché il massacro della Palestina continua". Le testimonianze non sono soltanto un'opera letteraria, ma un'opportunità per scrivere la storiografia da 'dentro' del territorio negli ultimi dieci anni. "I vari capitoli sono suddivisi per anno - spiegano i curatori -.
L'evoluzione delle storie e delle poesie nel corso del tempo vi darà un'idea degli 'alti e bassi' della vita a Gaza". Per ciascuno scrittore è presente anche un aggiornamento sulla sua condizione oggi.
Tra le pagine si potrà leggere dell'amico immaginario di Haya Abu Shammala, che è un tetto. Degli uccelli, che non si sentono più, e del maestro di Allam Zedan, che ha 'vendicato' la morte di suo figlio facendone un altro, in un processo mentale che rimane quasi un mistero. Altri ragionamenti, invece, sono lineari: alcuni nella bellezza, come per il progetto attraverso cui sono stati colorati con tinte sgargianti i muri delle città bombardate e dei porti distrutti. Altri ancora, nel loro dramma: come la storia di un ragazzo che, dopo una vita passata a fare mestieri umili e pericolosi per mantenere la famiglia e sposare la donna che amava, perde il lavoro e non trova più una via d'uscita e tenta il suicidio.
"È come se stessi vivendo in un giorno che si ripete all'infinito", scrive Ismail Abu Aitah, a un anno dalla morte di suo fratello: una delle frasi che più identificano l'esperienza martellante della guerra. Che fa vittime pure quando non ci sono bombardamenti, come capita a un bambino conosciuto da Said Al-Yacoubi, morto nell'attesa (per mesi) di un permesso per andare in un ospedale israeliano e curare la sua malattia.
"Ci hanno derubati dell'infanzia e della felicità e poi ci dicono che siamo noi i terroristi", rivendica Yara Jouda, mentre Anas Jnena lancia un appello: "Voglio che il mondo sappia che a Gaza gira tutto intorno alla vita". 'Non siamo numeri' non può essere un libro privo di politica, pur trattando una molteplicità di prospettive diverse. Spesso, però, è la politica delle piccole cose, come quando Haya Abdullah Ahmed racconta l'assurdità di certi libri per imparare l'inglese diffusi dalle organizzazioni internazionali a Gaza, in cui viene chiesto agli alunni: "Ti piacerebbe andare in Canada o a Parigi?". La risposta: "Sì, ma posso farlo solo nei miei sogni".
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