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"L’ultima parca", un romanzo che interroga la morte e sfida il senso dell’esistenza

PressRelease

"L’ultima parca", un romanzo che interroga la morte e sfida il senso dell’esistenza

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Responsabilità editoriale di NEW LIFE BOOK

Ilaria Costi indaga la fragilità dell’esistenza in un romanzo che intreccia la professione medica, il mito e il mistero della fine

30 gennaio 2025, 10:21

NEW LIFE BOOK

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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La vita e la morte si sfiorano, si intrecciano, si confondono. Sono due fili di uno stesso tessuto, opposti e inseparabili, come il giorno e la notte. Esistono, tuttavia, momenti in cui il confine tra queste due dimensioni diventa labile, quasi impercettibile. Tra i corridoi freddi di un ospedale, questo confine diventa realtà tangibile. È un territorio fatto di respiri incerti, monitor che tracciano destini e mani che tentano di afferrare l’invisibile. Le mani di Marco Calestani – il protagonista del romanzo d’esordio di Ilaria Costi“L’ultima parca”, pubblicato per il Gruppo Albatros il Filo – cercano di sfiorare questo confine con desiderio febbrile: lui è neurofisiologo in un grande ospedale di Milano e il suo lavoro consiste nel monitorare i parametri del sistema nervoso dei pazienti comatosi, per stabilire se siano ancora vivi. Nonostante siano trascorsi anni dalla prima volta, ma non smette di interrogarsi e soffrire ogni volta il monitor segnala un encefalogramma piatto, come se, in fondo, fosse colpa sua. La morte gli provoca orrore, ma la sua responsabilità, come medico, è di farsene portavoce
“Marco ritorna al capezzale, apre le palpebre della ragazza e controlla le pupille, sono fisse e dilatate, così deve essere, dice la legge, e ancora una volta gli sembra di averla uccisa lui. Certo, mica ce l’ha buttata lui giù dalla finestra. Ma fino al suo arrivo, alla sua parola, la ragazza, la bambina quasi, si trovava al di qua della linea sottile che separa la vita dalla morte, e ora lui gliela ha fatta attraversare. Ora è dall’altra parte, irraggiungibile, per sempre. Un altro fantasma che apparirà nei suoi sogni”, leggiamo, in uno straziante estratto del romanzo. 
L’autrice Ilaria Costi, medico neurofisiologo con quasi trent’anni di esperienza, fonde con sapienza la realtà vissuta e l’esperienza letteraria. Non è un caso che l’esperienza del protagonista, Marco Calestani, e quella dell’autrice, si riflettano con una precisione quasi speculare: entrambi vivono a stretto contatto con il confine sottile che separa la vita dalla morte, ed entrambi si trovano a essere interpreti e testimoni di quel passaggio. Il romanzo nasce proprio dal vissuto dell’autrice, maturato nei reparti ospedalieri dove il destino umano si misura in segnali elettronici e monitor che tracciano fragili equilibri. Così il protagonista, incaricato di accertare l’attività cerebrale nei pazienti comatosi, incarna una figura ambivalente: custode della vita e messaggero della fine. In questa ambiguità scorgiamo, forse, il riflesso di una tensione reale, vissuta da chi, come Costi, è chiamato a confrontarsi quotidianamente con l’inevitabile. 
Al centro della riflessione di Costi vi è il confronto tra la vita e la morte, un dualismo che non è mai netto, ma si dispiega come un dialogo continuo, spesso silenzioso e doloroso. A questo si intreccia l’osservazione della fragilità umana, che si manifesta sia nel corpo che nell’animo. Sono i limiti biologici del corpo il terreno su cui si gioca la battaglia tra resistenza e resa, mentre l’animo, messo a dura prova dalla sofferenza e dalla perdita, cerca rifugio in significati più ampi. Marco è un uomo spezzato: il lavoro è per lui una fonte di angoscia, mentre il suo rapporto con Anita, la moglie, si sgretola sotto il peso del non detto e della distanza emotiva. Marco e Anita sono due pianeti che orbitano attorno allo stesso sole, senza mai incontrarsi davvero: entrambi cercano conforto, ma su rotte opposte, incapaci di colmare la distanza che li separa, nonostante siano legati da un amore profondo, viscerale. Marco si chiude in sé stesso, incapace di condividere con la moglie il proprio dolore, mentre lei, d’altro canto, desidera un contatto che il marito sembra non riuscire a offrirle. È un rapporto che non si consuma in grandi litigi, ma nell’erosione silenziosa di un amore che fatica a sopravvivere
Lo stile di Ilaria Costi è denso, evocativo e ricco di simbolismi: la progressione del romanzo non segue un andamento lineare, ma si articola in flashback, ricordi frammentati e riflessioni che rendono la narrazione profondamente stratificata. È una continua fusione tra il concreto e il trascendente: la realtà più cruda è sempre un mezzo che conduce a riflessioni esistenziali e spirituali, in un’esperienza totalizzante in cui l’azione e il pensiero si intrecciano in maniera indissolubile. Come già suggerito dal titolo, Costi si serve della mitologia come chiave interpretativa. I riferimenti alla letteratura classica e alla mitologia sono molteplici, ma sono proprio le Parche, le divinità che decidono il destino umano, la presenza costante del romanzo, anche quando non esplicitamente nominate. È come se Marco fosse la personificazione di Atropo, costretto a “tagliare” i fili della vita, ma allo stesso tempo la consapevolezza di questo suo ruolo lo conduce in una lotta sfiancante contro il peso della propria responsabilità. Il ritmo narrativo, pur sostenuto, non è mai frenetico. Le descrizioni e le incursioni nella psiche dei personaggi consentono al lettore di assaporare i dettagli e di immergersi completamente nella storia, lì dove l’alternanza tra dialoghi incisivi e monologhi interiori amplifica il coinvolgimento emotivo. 
Una forza silenziosa che muove dall’interno lo svolgersi della trama è il tema del suicidio, che lega le storie dei personaggi e amplifica il peso del dramma esistenziale che si consuma nel romanzo. Ogni incontro con questa forma estrema di abbandono pone il protagonista davanti a interrogativi che vanno oltre la scienza e le procedure cliniche: Marco non può fare a meno di domandarsi se ci sia una responsabilità collettiva, una connessione tra la sofferenza altrui e il silenzio di chi la osserva senza comprenderla. 
La forza emotiva del libro risiede nella profondità con cui l’autrice stimola la riflessione sulle domande essenziali dell’esistenza. Il dolore, la perdita, ma anche la speranza vengono toccati con una delicatezza che non cede mai al sentimentalismo. Per questo motivo il lettore si trova spesso spiazzato, non solo dalle svolte della trama, quanto più dalla capacità di Costi a costringerlo a guardare dentro di sé, di interrogarsi su come si affrontano il dolore, il lutto, il mistero della fine. Nella sezione conclusiva del libro, il protagonista vive un momento epifanico che gli permette di maturare nuove consapevolezze: una fusione tra il concreto e il trascendente che lo conduce a un nuovo equilibrio, precario ma autentico, tra il suo ruolo di medico e la sua dimensione personale. 
La prosa densa e stratificata di Costi non offre risposte facili, al contrario, ogni pagina sembra costruita per sfidare il lettore a porsi delle domande. Cosa significa essere vivi? Cosa ci resta quando tutto sembra spezzarsi? Che si tratti di una giovane ragazza, di un amico perduto o di un amore che si sgretola, la morte è sempre lì, a ricordarci quanto sia prezioso ciò che la precede. Per questo il romanzo di Ilaria Costi non parla di rassegnazione, ma piuttosto ci invita a trovare bellezza anche nel limite, forza nella fragilità. “L’ultima parca” ci porta a guardare ai confini della nostra esistenza non con paura, ma con accettazione e, forse, persino con gratitudine, perché in fondo non è il filo che conta, ma ciò che resta nel telaio quando il lavoro è terminato. 

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