Arriva da Google il nuovo collaboratore virtuale basato sull’Intelligenza Artificiale, pensato per aiutare i ricercatori riassumendo grandi quantità di dati, facendo nuove ipotesi e accelerando le scoperte scientifiche: si chiama ‘AI co-Scientist’ e ha già dato risultati promettenti in tre esperimenti nel campo della ricerca biomedica, aiutando a comprendere la diffusione tra batteri dei meccanismi che li rendono resistenti, trovando farmaci già esistenti che possono rivelarsi utili anche per altre malattie e identificando nuovi bersagli terapeutici per la fibrosi epatica.
Nel primo studio guidato da José Penadés dell’Imperial College di Londra e Juraj Gottweis di Google Research, e pubblicato su bioRxiv, piattaforma dove si trovano articoli non ancora passati al vaglio della comunità scientifica, i ricercatori hanno messo alla prova l’IA per vedere se fosse riuscita a giungere alle loro stesse conclusioni: nonostante non fosse a conoscenza del loro studio, non ancora pubblicato, il sistema ha elaborato un’ipotesi su un particolare processo che consente la diffusione della resistenza microbica, che rispecchiava i risultati ottenuti in maniera indipendente.
In un altro lavoro non ancora pubblicato, guidato da ricercatori di Google Cloud AI Research, Google Research e Google DeepMind, è stato affrontato il problema dello sviluppo di farmaci, un processo sempre più dispendioso in termini di tempo e denaro. Il riutilizzo dei farmaci, con nuove applicazioni terapeutiche per composti esistenti, può essere una soluzione ma non è un procedimento semplice. Su questo è stato testato AI co-Scientist, che ha proposto un farmaco già in commercio che potrebbe essere efficace anche per il trattamento della leucemia mieloide acuta, una forma aggressiva di tumore che colpisce le cellule del sangue: la sua intuizione è stata poi confermata grazie a simulazioni ed esperimenti di laboratorio.
Ancora più complessa del riutilizzo di farmaci è l’identificazione di nuovi bersagli terapeutici, un processo che spesso porta a selezionare candidati che si rivelano poi deludenti. Nell’esperimento coordinato da Gary Peltz dell’Università americana di Stanford e Tao Tu di Google DeepMind, anche in questo caso non ancora pubblicato, il ‘collaboratore virtuale’ ha trovato dei nuovi obiettivi per la fibrosi epatica, caratterizzata dalla formazione di eccessivo tessuto cicatriziale nel fegato: trattamenti indirizzati contro questi bersagli si sono dimostrati poi efficaci in studi effettuati su organoidi, cioè modelli semplificati di fegato.
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