I bambini sono pronti per la preghiera davanti al cellulare che li riprende per far sentire la loro voce, linea internet permettendo, a tutto il mondo. A metà del segno della croce arriva forte il rumore delle bombe. Il più piccolo, in prima fila, salta e si tappa le orecchie, tutti lo guardano e lui torna a farsi il segno della croce. E' uno dei frammenti, arrivato con un video sui social, della vita quotidiana nella parrocchia della Sacra Famiglia di Gaza, che dal 7 ottobre vive tra i canti religiosi e i colpi della guerra. Un conflitto che per loro è vicino, proprio dietro il portone del compound che qualche giorno fa è stato danneggiato proprio da un razzo esploso a pochi passi.
I cattolici nella Striscia di Gaza sono circa centocinquanta persone, e la Sacra Famiglia, fino a un mese fa, non era che una delle più piccole parrocchie cattoliche del mondo. La guerra è una costante da anni, quasi avevano imparato a conviverci. Ma ora è un'altra cosa. Anche dentro la chiesa ora "il rischio c'è, perché il quartiere - ha spiegato il Patriarca di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa, parlando nei giorni scorsi con la tv della Cei - è un obiettivo militare. Gli avvertimenti sono arrivati. La nostra comunità, che è informata di tutto, ha deciso di restare. Prima di tutto perché non sanno dove andare e poi perché dicono che nessun luogo nella Striscia di Gaza è al sicuro. Quindi preferiscono restare lì, pregano e confidano in Dio. È molto bello vedere come nonostante tutto riescano a mantenere una fede salda, che non è stata scossa neanche da queste bombe".
Ed è così perché alla Sacra Famiglia si celebra la messa due volte al giorno, si recita il rosario e c'è anche l'adorazione.
Per la messa i chierichetti indossano tutti le vesti liturgiche linde e ordinate. Le omelie del viceparroco Iusuf Asad (il parroco Gabriel Romanelli era a Betlemme al momento dello scoppio della guerra e non ha più potuto far rientro a Gaza) arrivano ovunque via Facebook. "Prega per noi perché finisca la guerra", il messaggio che accompagna le dirette. E quando il conflitto sfiora i muri della parrocchia, il viceparroco cerca di rassicurare il mondo della rete: "Siamo tutti in chiesa, stiamo bene".
La chiesa è in un compound che oggi è una sorta di villaggio che ha superato le settecento persone, molte delle quali musulmane. Famiglie che hanno perso la casa e feriti che vengono curati nell'ambulatorio. Si fa il bucato e si divide il cibo a disposizione. Si fanno giocare i bambini e si conversa con gli anziani. E poi ci sono quella sessantina di disabili, metà bambini e metà adulti, curati dalle suore di Madre Teresa, che davvero non potrebbero essere trasportati altrove.
La giornata nella parrocchia di Gaza ha però un appuntamento quotidiano "atteso da tutti: è la telefonata di Papa Francesco.
Ci rassicura e ci conforta, ci dice che conosce bene la nostra sofferenza, che prega per noi. Al termine di ogni conversazione ci benedice tutti. Il Papa - dice al Sir suor Nabila Saleh - è l'unico che ascolta la nostra voce".
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