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Meloni studia il rilancio dei centri in Albania, il nodo dei Cpr

Meloni studia il rilancio dei centri in Albania, il nodo dei Cpr

I tecnici cercano vie per sbloccarli, in attesa della Corte Ue

ROMA, 11 febbraio 2025, 06:57

di Silvia Gasparetto

ANSACheck
Il centro allestito a Shengyin in Albania - RIPRODUZIONE RISERVATA

Il centro allestito a Shengyin in Albania - RIPRODUZIONE RISERVATA

Rilanciare i centri in Albania, ancora vuoti, per rilanciare l'azione del governo. Giorgia Meloni da giorni coi suoi interlocutori assicura che non è intenzionata a fare passi indietro, nonostante le decisioni dei magistrati sui richiedenti asilo finora abbiano azzoppato il progetto dell'esecutivo.

E vorrebbe trovare una soluzione senza aspettare che si pronunci la Corte di Giustizia europea, che potrebbe avere tempi lunghi per esprimere una decisione. Solo ipotesi, al momento, tra cui compare anche quella di trasformare le strutture albanesi in centri per i rimpatri.

Dopo un primo confronto venerdì scorso in coda al Consiglio dei ministri tra la premier, il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza Alfredo Mantovano, i tecnici si sono messi al lavoro - una riunione si sarebbe tenuta anche nelle ultime ore a Palazzo Chigi e altre ce ne dovrebbero essere in settimana - mentre lei affrontava la questione dei migranti anche con il suo omologo austriaco, il nuovo cancelliere Alexander Schallenberg.

Il cambio di strategia sul 'modello Albania' si inserirebbe in un contesto europeo che il governo considera favorevole. Meloni e Piantedosi hanno più volte sottolineato l'interesse di Bruxelles per il progetto italiano che potrebbe fungere da apripista nella Ue. Non a caso il ministro dell'Interno nei suoi ultimi incontri con i colleghi europei ha auspicato una riforma più incisiva - e in tempi rapidi - della Direttiva rimpatri, "che preveda meccanismi di regionalizzazione per trasferire gli immigrati illegali in Paesi limitrofi, quando non sia possibile riammetterli nel Paese d'origine". Le ipotesi sul tavolo per sbloccare l'utilizzo dei centri sarebbero diverse, con l'obiettivo dichiarato di bypassare lo stop dei giudici ai trattenimenti evitando però lo scontro frontale.

Gli esperti di Palazzo Chigi, del Viminale e degli altri ministeri coinvolti starebbero continuando ad approfondire le possibili opzioni da mettere in campo per rendere davvero operativi Shengjin e Gjader, le due strutture oltre Adriatico pronte da mesi, ma che finora non hanno di fatto ospitato nessuno. Al momento si tratterebbe comunque di riunioni interlocutorie e non ci sarebbero decisioni prese nemmeno sull'eventuale veicolo (decreto, disegno di legge o emendamento da presentare a qualche provvedimento già all'esame delle Camere) attraverso cui mettere in campo le nuove misure.

A ora peraltro non è ancora in programma un nuovo Cdm per la settimana. Si starebbe in particolare riflettendo sulla possibilità di cambiare il format dei centri in Albania, trasformandoli in Centri per il rimpatrio. Così in quelle strutture non sarebbero più trasferiti i migranti caricati dai pattugliatori della Marina nelle acque internazionali del Mediterraneo, in attesa delle procedure di frontiera accelerate, ma Shengjin e Gjader diventerebbero centri per gli irregolari già presenti in Italia e su cui pende un decreto di espulsione.

Si eviterebbe così il passaggio dai giudici per la convalida del trattenimento nelle strutture - negato già in tre occasioni - che è invece obbligatorio nel caso di richiedenti asilo. Uno dei problemi sul tavolo sarebbe rappresentato però dalla necessità di rivedere il Protocollo con Tirana, con relativo nuovo passaggio in Parlamento che comunque allungherebbe i tempi per rendere operative le novità.

"Andiamo avanti, non lasceremo il lavoro in Albania", assicura il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani limitandosi a un "vedremo" come commento all'idea dei centri in Albania trasformati in Cpr. Idea che intanto viene già bocciata dalle opposizioni che parlano tra l'altro di "follia istituzionale" (dice il dem Francesco Boccia) e della "presa d'atto di un fallimento" (secondo leader M5s Giuseppe Conte).

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