PAOLO APOLITO, ''RITMI DI FESTA'' (IL MULINO, pp. 266 - 18,00 euro).
Giusto cento anni fa, come ci hanno ricordato da tutte le parti in queste rimembranze della Grande guerra, il giorno di Natale soldati inglesi e tedeschi chiusi in opposte trincee, spontaneamente dettero vita a un armistizio istintivo scambiando canti, auguri, strette di mano, brindisi e cibi. Evento eccezionale (si dice che a dare il via furono i tedeschi e che quelli che vi parteciparono meno furono i francesi) e i giorni seguenti tutti tornarono a spararsi. Lo ricorda anche Paolo Apolito, docente di antropologia culturale all'università di Roma Tre, a sottolineare il naturale e umanissimo bisogno di condivisione, specie di un momento di festa, e a dare il via alla sua riflessione sul rapporto dell'uomo appunto con la festa.
Finita la guerra con la morte di Hitler e la liberazione di Berlino, per le strade, tra tedeschi e nemici esplose la festa ''euforia, salti, baci, lacrime'' e di colpo si cancellarono odi, grettezza e intolleranza, ricorda Helga Schneider. E' un altro dei molti episodi ricordati da Apolito, che vanno dagli incontri tra esploratori spagnoli e indios americani ai riti fusionali di certi concerti heavy rock, da Salonicco e Caracas, quando perfetti estranei, magari nemici, si abbracciano, come attratti da una forza magnetica che li fonde nel festeggiamento, poi, subito dopo, ognuno per la sua strada. Non è una comunità affiatata che festeggia qualcosa, come è naturale, ma una parentesi. E indagando all'interno di essa, dove sembrerebbe non esserci senso, ecco che ''si incontra quel vero legame speciale che è in grado di disporre gli atteggiamenti, di orientare i comportamenti delle persone'', quell'esaltazione che si lega a una gioia positiva dovuta a un accidente estrinseco e contingente.
Nasce così una possibile chiave per rileggere e indagare anche le feste diciamo più normali, programmate e condivise, che porta a scoprire come un certo modo ritmico (aiutato da canti, musiche, versi poetici, danze ecc.) di stare assieme sia ben più che l'espressione di una futile nostalgia folkloristica. ''Negli esseri umani - scrive - c'è musicalità, da lì viene, è una dote innata, immersa nella loro fisiologia e coltivata poi nelle esperienze di vita. E con musica si intende qualcosa di più e di più profondo della musica in senso letterale, una propensione al ritmo, a vibrazioni positive''.
La cosa, per l'autore, ha radici evolutive, attestate nella vita sociale di primati (scimpanzè inanzitutto) precursori dell'homus erectus, tanto che poi ne troviamo corrispondenza in termini sociali in tante intense e esemplari relazioni a due, tra madre e figlio, tra innamorati, tra nemici, che si rivelano il cardine di ogni esperienza vitale. Dello scorrere della vita (e la parola Ritmo deriva dal verbo greco Reo, scorrere) scandito dai suoi ritmi, dai battiti del cuore alla metrica poetica, dai movimenti del corpo al battere il tempo all'unisono con altri.
Perché però questo accordo nasca, perché prenda vita una ''comunità ritmica'', c'è bisogno di un accordatore, di qualcuno che dia il via e che Apolito chiama performer (il primo tedesco che intonò Stille nacht quel Natale nella sua trincea, trascinando presto tutti quanti, o Primo Levi che legge le terzine di Dante a Auschwitz, facendo dimenticare agli ascoltatori uniti dove si trovino). Potremmo dire che è un fatto di imitazione, ma l'autore la chiama mimesis, che è la stessa cosa, ma di natura istintiva, e afferma: ''Tra gli esseri umani c'è un ponte costantemente presente, attraverso il quale può transitare 'l'umanità comune', sorpassando gli abissi delle diversità culturali. Un ponte un po' nascosto, che è dentro un meccanismo parte volontario, parte involontario come lo è la capacità d'imitazione - e questo rende a doppio fondo la scatola cinese della comunità ritmica - di cui disponiamo in quanto umani e cui è difficile dire di no''. Forse se ne saranno resi conto i più musoni e solitari che, in questi giorni di feste continue, si saranno sorpresi a ritrovarsi coinvolti in qualche 'ritmo' collettivo, prima di tornare al loro amato, pessimo carattere.
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