(di Paolo Petroni)
Lunghi appalusi per questo 'Ritorno a
casa'' di Harold Pinter firmato da Massimo Popolizio al teatro
Argentina (fino al 25 maggio) con la sua sensibilità per la
teatralità, per i ritmi e gli effetti di una rappresentazione,
la capacità di cogliere la nota comica anche nel drammatico e
lavorare con gli attori. Ecco allora uno spettacolo forte che
gioca sopra le righe, che punta al grottesco quasi
farsescamente, senza tempi morti o lentezze, tenuto su di tono
con la prevalenza del rabbioso, comunque con un fondo di
rancoroso qualsiasi sia il momento, e con una recitazione spesso
icastica e un po' perentoria, tranne nel finale a sorpresa col
suo arreso invertirsi dei ruoli tra maschi e donna, una sola tra
cinque uomini.
Il fatto è che mettere in scena Pinter è un gioco di
equilibrismo, di lavorare più sul non detto che su quel che
appare esplicito, sul sottintendere e andar oltre la superficie
realistica, recitare il vero ma facendolo apparire astratto,
altro. Ricordiamo un 'Ritorno a casa' con regia di Peter Stein
con quei personaggi molto caratterizzati e un po' estremi resi
in modo caloroso ma davvero asciutto, senza mai cedere, nemmeno
un momento, al facile rischio di scivolare nella coloritura.
Ecco allora che prende peso una certo disagio esistenziale,
un'ambiguità dell'essere e dei rapporti, un qualcosa di
indefinito che crea supense, attesa più o meno minacciosa, che è
appunto nella conclusione, con la donna affrontata come oggetto
ma che, di quella condizione, fa un potere.
Il gioco al contrario di Popolizio, puntando, con una
recitazione icastica e speso perentoria, più sull'estremo che su
un aspro quotidiano, crudele ma non arbitrario, con sue ragioni,
magari dal sottile sapore inglese più che mediterraneo, rischia
che l'andare sopra le righe annulli il resto, facendolo finire
solo in se stesso, inventandosi anche nel delicato e forte,
ambiguo finale una sorta di visione spettacolare e provocatoria.
Al centro della vicenda c'è Max, un anziano padre, ex
macellaio invecchiato male, tra casalingo Andy Capp col
cappellino e il padre-padrone che difende il proprio ruolo
brandendo il proprio bastone, cui lo stesso Popolizio dà
vitalità, con la sua abilità nel saper usare i toni, rabbioso ma
con note ora ironiche ora perfino di tenerezza. Con lui, in
questa vecchia casa vittoriana decaduta e solo resti sparsi del
passato, ideata da Maurizio Balò con un ritratto di Elisabetta
da una parte e una testa di mucca dall'altra, a ricordare il
lavoro di famiglia, sono due figli sempre molto esagitati e
permalosi, l'ambiguo gigolò Lenny di Christian La Rosa e il Joey
di Alberto Onofrietti che sogna un'impossibile carriera di
pugile, oltre al mal tollerato Sam di Paolo Musio, autista e
fratello di Max.
Il ritorno a casa è quello di un terzo figlio, Tedddy di Eros
Pascale, professore di filosofia in America, ansioso e perdente
sin dall'inizio, che arriva una notte con la moglie Ruth, con un
vago passato di modella grazie al suo corpo, e che da madre di
tre figli piccoli non ha perso il gioco di malizia e
provocazione forte del suo potere femminile, che rende con più
misura degli altri, anche se senza doppifondi, pur con un
eccesso di esibizione e qualche inquietudine Gaja Masciale. Lei,
in quel mondo di maschi dalla convivenza obbligata e difficile,
presuntuosi e chiusi nei propri rapporti irrisolti, tra
solidarietà di genere e odi subdoli e biechi, diventa una
cartina di tornasole perturbante, che non sanno se vedere come
madre o puttana e che comunque penseranno di usare e umiliare,
quando accetta di restare con loro, mentre il marito torna a
casa dai figli.
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