(di Elisabetta Stefanelli)
In un breve ma intenso libro,
Passeggiata sull'Himalaya, da poco pubblicato in Italia da
Adelphi, Jamaica Kincaid racconta il suo viaggio sulla catena
più alta del mondo. È una vera e propria immersione nella natura
alla ricerca di erbe rare, ma anche una metafora del viaggio nel
luogo più vicino all'Eden, che viene dalla scrittrice
antiguo-barbudana che attualmente vive a North Bennington, in
Vermont.
In un'esistenza segnata da grandi passaggi, le chiediamo il
suo rapporto con il viaggio, e nello stesso tempo quello con
l'idea paradisiaca della natura così messa in discussione
dall'umanità. Come racconta bene qui e in altri suoi volumi,
pubblicati in Italia da Adelphi, la scrittrice, nata Elaine
Cynthia Potter Richardson a Saint John's nel 1949 e poi a 16
anni andata a New York a lavorare come ragazza alla pari. Ora ad
un passo dal Nobel dopo pagine memorabili come quelli di In
fondo al fiume, Autobiografia di mia madre, Vedi adesso allora.
"I viaggi sono necessari - risponde all'ANSA Jamaica Kincaid
-, ho desiderato e voluto tantissimo questo viaggio in Nepal pur
lasciando mio figlio a casa. Il viaggio è stato a tratti irto di
pericoli, di dolori, di fatica fisica, di paure. Eppure poi al
ritorno sono rimasti i ricordi belli, le emozioni, le sorprese,
il piacere di riportare a casa i semi che ero andata a cercare,
e vedere mesi dopo la fioritura nel mio giardino. Quando guardo
un giardino la prima sensazione è di pace infinita. La seconda,
se mi ci addentro, mi sento come colta in un incendio. Il
giardino, come tutto nella vita, è qualcosa di profondamente
contraddittorio. Certamente quello che dico sempre che il
giardino è l'espressione di una cultura, non è semplicemente
'natura'. Il giardino è il frutto di un disegno razionale e
umano molto preciso. Penso ai giardini all'italiana copiati dal
resto d'Europa, per esempio".
Distingue però Kincaid tra turista e viaggiatore. "Il turista
che viaggia - dice - va nei posti per scappare da dov'è, da dove
abita tutti i giorni. Il viaggiatore prima di tutto rispetta le
persone che incontra nei paesi stranieri in cui va e ci va per
capirli, per conoscere, per fare uno sforzo". E del resto la
frase che la scrittrice, in questi giorni in Italia, ha lasciato
a Libri Come è: "La pace è l'atto di stare a casa! Non uscire di
casa solo per andare a fare del male agli altri".
Ha avuto momenti alterni nel rapporto con la scrittura, con
una lunga pausa che per fortuna si è interrotta. Che rapporto ha
recuperato ora con la pagina scritta? Cosa sta scrivendo? "In
estate uscirà il mio nuovo libro, una raccolta di articoli che
ho scritto dal 1973 a oggi e che non ho mai pubblicato prima. Si
intitola Putting Myself Together (uscirà per Adelphi nei
prossimi anni)", spiega Kincaid.
In realtà oggi è sempre più frequente e stretto nelle opere
letterarie il rapporto tra biografia e fiction. Se le si chiede
di questa relazione, spiega che "alcuni libri tipo Mio fratello
sono tutti estremamente curati da questo punto di vista, dicono
esattamente come sono andate le cose. Non invece altri - eppure
giudicati molto autobiografici ndr. - come Vedi adesso allora
che racconta il divorzio ma la figura del marito è quasi
completamente inventata". Quanto al dilagare della biografia
nella fiction, la scrittrice dice di non avere "un giudizio
unico. Se c'è una cosa che mi sento di sottolineare - aggiunge -
è di stare molto attenti a quelli che scrivono non fiction e
mentono scrivendo cose poco accurate. Come quelli che abusano
con l'europeocentrismo", spiega ricollegandosi al suo discorso
anti coloniale.
Che giudizio dà sull'America di oggi? "L'America di Trump?
Trump è una maledizione", dice senza mezzi termini aggiungendo:
"Non venite negli States ora boicottate più che potete".
Quali sono le catene che ci stringono oggi? "La
disuguaglianza, l'ignoranza".
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