traduzione dall’olandese di Giorgio Testa
copyright 2014 Herman Koch
Giorni finlandesi
Notti finlandesi
La cosa principale
È l’attesa micidiale.
Aatto Aalto (1914-1971)
In Finlandia ci ero andato innanzi tutto per fare qualcosa di manuale. Nel 1973 fare qualcosa di manuale aveva un significato diverso rispetto a oggi. Sei mesi prima avevo finito le superiori. Una situazione che ho sempre vissuto come una fine: si concludeva una cosa che durava da troppo tempo. A volte mi capita di fare un sogno. Si sente spesso di gente che sogna di dover sostenere un esame, in particolare un esame finale: si svegliano in un bagno di sudore, per fortuna nel proprio letto, in piena notte, sì, ma non c’è più nessun esame finale da fare, lo hanno già superato mezza vita fa. Chi vuole proprio sapere il significato di quel sogno va dallo psicologo oppure scrive una lettera alla rubrica della posta di Elle.
Il mio sogno dell’esame finale è del tutto diverso. Nel sogno (ogni tanto lo faccio ancora) devo andare a scuola. Gli orari delle lezioni sono annotati sul diario, e dopo il suono della campanella abbiamo l’ora di tedesco con la signora van Aakerinden-Hagenau. Inizio a sudare freddo, sempre nel sogno. Poi torno verso casa in bicicletta. Inizia a balenarmi il dubbio. Nella casa dove mi sto dirigendo non ci abito più da molto tempo. Sono uno scrittore. Non devo mica andare a scuola. Anzi, se vado a scuola per un anno intero mi rimarrà troppo poco tempo per scrivere. Non lo farò, dico a me stesso (nel sogno), mentre pedalo verso la casa dove ormai non vivo più. Domani non ci tornerò proprio. Possono tutti andare a farsi friggere.
Durante il sogno mi pervade, caldo e profondissimo, un senso di contentezza. Sono sicuro che sto sorridendo, sia nel sogno che nella realtà, mentre dormo nel mio letto, nella mia casa. Non mi sveglio mai in un bagno di sudore. Non c’è alcun senso di sollievo. Il senso di sollievo c’è già stato nel sogno. Mi sveglio sempre con la sensazione di avere preso, come tutte le volte precedenti, l’unica decisione giusta.
Qualche anno fa ho scritto alla rubrica della posta di Elle. Volevo sapere il significato di quel sogno. Tre giorni dopo è arrivata la risposta, che due settimane più tardi sarebbe apparsa in forma ridotta nella rubrica della rivista. Ero pentito, secondo l’interpretazione del sogno. Pentito di non avere preso quella decisione tanto tempo prima. Quando ero ancora alle superiori. La vita avrebbe potuto iniziare già molto prima. Continuando a perdere tempo a scuola (e sostenendo l’esame finale) avevo ridotto di almeno tre anni la mia esistenza.
Quando guardo le foto di allora vedo una persona che con me c’entra solo molto vagamente e alla lontana. Un ragazzo allampanato, un po’ troppo esile, con una giacca grigia scolorita che con un po’ di fantasia si sarebbe potuta definire un “camiciotto da contadino”. I pantaloni, altrettanto scoloriti, infilati in stivali neri di gomma alti quasi fino al ginocchio. Un braccio si posa noncurante su un carretto giallo; un po’ più indietro si distinguono appena le ruote posteriori di un trattore rosso, piene di fango.
Sembra l’immagine di un duro, ma non lo è: il ragazzo è proprio troppo esile e allampanato. Che ci faceva lì?, viene da chiedersi. Oppure: Era abbastanza robusto per quel lavoro?
Anche negli anni successivi queste domande hanno sempre continuato ad assillarmi. Se in una serata qualsiasi, dopo che si era sparecchiato la tavola, ricordavo il mio periodo finlandese, ormai la gente (i miei stessi familiari, gli amici) iniziava a ridere anche senza bisogno delle foto. Di solito cercavo subito di cambiare argomento dopo qualche rapida battuta (“Era l’inverno del 1973, il termometro alle dieci di sera segnava meno 27”, “Ero andato lì per fare un lavoro manuale”, “Con quella motosega una volta stavo per segarmi via il polpaccio”). Siete sicuri di voler sentire? diceva il mio sguardo. Sì, sì, continua, mi incoraggiava il pubblico annuendo. Ogni volta ricominciavo dal viaggio in nave in mezzo ai blocchi di ghiaccio del Mar Baltico fino all’arrivo nel porto congelato di Helsinki, consapevole che presto o tardi sarebbero iniziate le risatine. Spesso mi sentivo come lo zio che in tempo di guerra aveva lavorato alla ferrovia birmana, in particolare quando raccontava - sempre come fosse la prima volta - dei due giapponesi sgozzati con le sue mani durante la fuga. Tra i cinque e i quindici anni avrò ascoltato quella storia almeno una trentina di volte, sforzandomi sempre di accostare il faccione paffuto di mio zio alle immagini, quelle sì suggestive, dei soldati giapponesi che sanguinavano copiosamente dalle gole recise. Il sorriso incredulo sul mio viso non potevo vederlo, ma lo avvertivo eccome, e dovevo coprirmi la bocca con la mano per nasconderlo a quel ballista di mio zio.
Siete sicuri di voler sentire? La mia domanda, al di là della cortesia, aveva soprattutto a che fare con la scarsa credibilità del mio soggiorno in Finlandia, con quelle foto in cui posavo sì su un carretto trainato da un trattore, ma dove non si vedeva mentre sfrecciavo con quello stesso trattore lungo le strade innevate in mezzo ai boschi finlandesi. Sì, proprio così: sfrecciavo. Sempre troppo veloce, specie in curva. Avevo diciannove anni. Non troppo tempo prima alcuni eventi mi avevano sconvolto totalmente la vita, per non dire strappato il terreno da sotto i piedi. Speravo in qualcosa, mentre ero lì da solo sul trattore in mezzo ai boschi. Un incidente, almeno. Un incidente in cui rimanere ferito gravemente – in cui, se necessario, perdere la vita.
Era una sensazione liberatoria, una sensazione che non avrei mai più provato. Non c’era alcun pericolo, o meglio, il pericolo c’era, ma era mio amico – forse il miglior amico che avessi nel 1973.
Fiocchi di neve più grossi di quelli che scendevano dal cielo notturno alla stazione di Lieksa non li ho mai visti, né prima né dopo quella volta. In Olanda i fiocchi di neve galleggiano lievi nell’aria, come piume, scendono con cautela, come paracadutisti in cerca di un punto sicuro per atterrare: una lastra del marciapiede, il tettuccio di un’auto. Poi rimangono lì per un attimo, si dissolvono con calma; il loro compito è concluso, il viaggio verso il basso è completato.
Alla stazione di Lieksa i fiocchi di neve precipitavano veloci come mattoni. Erano tanti, non gli importava in che punto sarebbero andati a finire, sapevano dove andare, erano venuti a ricoprire il mondo di un’impenetrabile coltre bianca.
«Ormai è troppo tardi» disse l’uomo che mi aspettava al binario, sotto l’unico lampione; aveva neve sul berretto e sulla barba. «Domani ti porto alla fattoria».
Esitante, il treno si rimise in marcia verso la notte innevata; anche senza voltarmi indietro sapevo di essere l’unico viaggiatore sceso quella notte alla stazione di Lieksa.
«Siamo al corrente di ciò che è accaduto» disse più tardi l’uomo barbuto, nel suo cucinino, davanti a un caffè. «Ma ormai è troppo tardi. Meglio andare a letto, così domani mattina ti porto alla fattoria».
I primi giorni mi cadeva tutto dalle mani: bidoni di latte, secchi, rastrelli, scope e i pezzi staccabili della macchina per la mungitura, che andava fissata con le ventose alle mammelle delle vacche. Non potevo vedermi, non era ancora come sarebbe stato poi in quelle foto: ancora ci credevo, credevo in una versione meno imbranata di me stesso che nel giro di una settimana sarebbe emersa dal vecchio corpo. Credevo in una vera e propria rinascita: il mio io precedente, dotato di due mani sinistre e diversamente agile, sarebbe stato gettato via e, come la pelle di un serpente, sarebbe rimasto abbandonato su una roccia. Sarebbe sorta una versione di me più prestante, che avrebbe affrontato le carriole, i rastrelli e le scope come non avesse mai fatto altro in vita sua. Con naturalezza avrei maneggiato il forcone per ripartire il fieno tra le vacche; avrei spremuto la tettarella del bidone del latte tra le labbra dei vitellini appena nati, umidicce al tatto come guanti bagnati, senza che quelli mi facessero volare il bidone dalle mani con qualche colpo di testa ben assestato; disinvolto avrei appoggiato la mano sul parafango posteriore del trattore mentre lo parcheggiavo in retromarcia nel ripostiglio. Come ho detto, non potevo vedermi, arrivava tutto da dentro, la credibilità doveva venir fuori da sola.
L’uomo barbuto (un fratello? un cugino? – non l’ho mai saputo), l’unico finlandese che parlasse un po’ d’inglese, era scomparso all’orizzonte mezz’ora dopo avermi scaricato alla fattoria quella prima mattina – e mai più si sarebbe ripresentato nei sei mesi successivi.
Ogni tanto mi chiedevo se anche il contadino che parlava soltanto finlandese e sua moglie sapessero ciò che era successo o se fossero stati informati almeno per sommi capi della mia storia. Ma poi mi venne in mente che l’uomo barbuto al binario aveva usato la prima persona plurale (“Siamo al corrente”): probabilmente il fratello finlandese e sua moglie avevano deciso che era meglio non rivangare quegli eventi. E poi, tanto, in che lingua ne avrebbero parlato?, riflettei più tardi, di notte, mentre ero a letto nella soffitta senza finestra sovrastante il casotto in cui erano parcheggiati il trattore, l’erpice, l’aratro e la seminatrice.
Entrammo nel bosco, dove il trattore sprofondò nella neve fin sopra le ruote posteriori. Imparai le mie prime parole in finlandese. Le parole per dire “albero che cade”, “rinculo della motosega”, “ferite non più suturabili”. Nella segheria dove trascinavamo gli alberi fissati con le catene dietro il trattore vidi uomini con tre dita, con un braccio che finiva in un moncherino, uomini con le camicie a scacchi da boscaioli che caricavano alberi interi in un colpo solo sulla piattaforma dove la sega circolare girava in continuazione. La piattaforma si muoveva verso la sega, l’abilità stava nel saltare indietro in tempo perché venisse segato per lungo soltanto il legno e non anche una gamba o tutto il corpo. Gli uomini, le cui arcate dentarie mostravano soprattutto spazi vuoti, bevevano vodka o spirito distillato in casa da bottiglie del latte che stappavano con i rari denti residui. Le scatarrate che lanciavano sul terreno coperto di aghi di pino erano più nere che marroni. Sapevo che i loro sguardi erano puntati sul mio corpo troppo esile; li vedevo darsi di gomito e scuotere la testa, ridere di stupore mostrando le bocche sdentate. Quando conversavano ad alta voce in finlandese ero sicuro che stavano parlando di me: architettavano qualche bello scherzo da fare al ragazzetto secco, uno scherzo con la sega circolare, qualcosa che non avrebbe mai dimenticato per tutta la vita.
Ci sono anche amici (i miei migliori amici, mi piacerebbe pensare, ma so che devo andarci con i piedi di piombo) che la raccontano in un altro modo, evidenziando l’aspetto eccezionale del mio viaggio solitario in Finlandia.
«In fondo tu a diciannove anni hai preso e sei partito così» dicono. «Nessuno di noi l’ha fatto».
E perché no?, penso, ma tengo la bocca chiusa.
«E comunque ti sarai sentito anche parecchio solo» dicono gli amici. «Per noi sei stato un sacco coraggioso».
La fattoria si trovava in una remota penisola in uno dei centomila laghi finlandesi. Le comunicazioni telefoniche non erano affatto scontate: per entrare in contatto con l’estero bisognava prima chiamare una centralinista e dettare il numero desiderato. Dopo mezz’ora di attesa, con un po’ di fortuna, si sentiva una voce in lontananza. Una voce vagamente nota di un familiare o di un amico. O ancora, due volte sui sei mesi che sarebbe durato il mio soggiorno in Finlandia, la voce della mia fidanzata rimasta ad Amsterdam.
«Quanto ci resti ancora?» sentii; dal suono sembrava fosse in un bagno, o comunque in una stanza con le piastrelle.
«Non lo so» risposi, sincero.
Tremila chilometri più a sud mi sembrò di sentire un sospiro, ma poteva anche essere una folata di fiocchi di neve spazzata dal vento lungo le finestre della fattoria.
«Pensavo che dopo un mese ne avresti avuto abbastanza» disse lei. «Non ti annoi?»
No, a quel punto erano meglio le lettere. Ci scrivevamo ogni tre giorni. Nelle lettere ci scrivevamo tutto, o comunque le cose che non si possono dire tanto facilmente al telefono con la centralinista che ascolta, anche se quella probabilmente capiva soltanto il finlandese.
«Ieri sono stato in una segheria in mezzo al bosco e ho segato un albero per lungo» tentai ancora. «E poi ho bevuto acquavite pura da una bottiglia del latte. È alcool al novanta per cento».
«Che dici? Si interrompe continuamente la comunicazione. Ho capito solo sega».
Qualche mese prima dell’esame finale ero stato convocato dal preside. Davanti a lui, sulla scrivania, la mia ultima pagella.
«Qui vedo solo dei tre e dei quattro», disse. «Fare l’esame finale, nel tuo caso, mi sembra completamente inutile».
Questo accadeva mesi prima del sogno; nel sogno avrei costretto il preside a inginocchiarsi e a ingoiare la mia pagella.
«Quindi ti inviterei caldamente a non fare l’esame», proseguì invece nella realtà. «Rifatti l’ultimo anno in santa pace. Così, a livello di Liceo Spinoza, a fine anno avremo una percentuale inferiore di bocciati. Per le statistiche».
Nel sogno rinunciavo all’esame finale; nella realtà giurai che mi sarei opposto alla scuola fino allo stremo delle forze, ignorando quindi il consiglio del preside.
Seguì una serie di quasi-incidenti. Mentre segavo i ciocchi per il caminetto la motosega toccò qualcosa di duro e rimbalzò indietro, finendomi a pochi centimetri dal sopracciglio sinistro. Nel parcheggiare il trattore nel ripostiglio entrai troppo forte in retromarcia e andai a sbattere contro la parete di legno in fondo, ritrovandomi in mezzo alle ruote posteriori. Mentre riparavo il cardine in alto della porta del ripostiglio (avrebbero dovuto sapere che una cosa del genere non si poteva decisamente affidare a me) la porta si staccò e mi venne addosso con tutti i suoi cento chili. Una volta stavo agganciando l’erpice al trattore e l’indice sinistro mi rimase incastrato tra il gancio e l’erpice; nel piccolo ospedale di Lieksa mi estrassero l’unghia con il fil di ferro e un’anestesia locale, e mi misero dieci punti anche sul dito. Un’altra volta, mentre spargevo l’insetticida, girai per sbaglio il trattore in direzione del vento e mi arrivò una folata umida di veleno in pieno volto, per un’ora non riuscii a vedere nulla ed espiravo a sbuffi corti e affannosi come un cane ammalato: decisi che era meglio evitare di raccontare l’episodio in fattoria. Durante i festeggiamenti del 1° maggio mi scolai tanti bicchieri di acquavite allungata con succo di frutta che persi conoscenza e mi ritrovai soltanto diverse ore più tardi in mezzo alle betulle: Per pulirmi alla meno peggio il vomito dai vestiti mi immersi nel lago fino al collo, e lì svenni di nuovo: sarei sicuramente annegato, se dall’altro lato del lago non mi avessero visto scomparire sott’acqua. Una notte stavo tornando a piedi da solo da una festa quando tra i cespugli lungo la strada illuminata dalla luna sentii un fruscio. «Chi è?» gridai in finlandese, ma non rispose nessuno; eppure avrei giurato su qualunque cosa di aver sentito qualcuno che respirava. Proseguii e quasi subito sentii di nuovo quel fruscio, come se ci fosse uno che mi seguiva sul lato della strada. Ogni volta che mi fermavo smetteva anche il rumore. Il giorno dopo il contadino mi disse che quella mattina all’alba, nei pressi di una fattoria a otto chilometri da lì, era stato abbattuto un lupo che aveva azzannato a morte una pecora.
Tutte queste storie le ho raccontate varie volte ai miei amici e familiari. Ho guardato le facce che facevano. Ho osservato quanto era difficile per loro immaginare me in quelle storie. A volte penso che, per quanto li riguardava, avrei potuto anche aver partecipato alla costruzione della ferrovia birmana.
Una settimana prima di tornare nei Paesi Bassi, mentre ero sul trattore, a una curva larga andai dritto. Lo feci apposta. Mancai per un soffio un albero, e poi un altro. Madido di sudore all’ultimo momento frenai prima del terzo. Il motore si spense. Ascoltai il silenzio tra gli abeti e il battito del mio cuore. Un quarto d’ora dopo accesi il motore, riportai il trattore in carreggiata e tornai con calma alla fattoria. È la prima volta che lo racconto.
«Mi auguro tu sia stato bene», disse l’uomo barbuto alla stazione di Lieksa, tendendomi la mano per salutarmi. «Spero abbia trovato ciò che cercavi».
Non mi ero «rifatto l’ultimo anno in santa pace», come consigliato dal preside del Liceo Spinoza. Ero andato in Finlandia. Sul treno del ritorno, per la prima volta, feci quel sogno.
Riproduzione riservata © Copyright ANSA