(di Giorgio Gosetti) 25 anni senza
Federico Fellini: se ne va, dopo dolorosi mesi di ricovero in
clinica, il 31 ottobre del 1993 e il mondo si accorge di un
vuoto che non riguarda solo la storia del cinema, ma un'idea
dell'arte che rimanda ai geni multiformi della creazione come
Picasso, Warhol, fino a Bergman. Il fatto è che lo stile, il
"fantarealismo" felliniano non è tanto un modo di
rappresentazione del cinema quanto una visione del mondo che
nasce sulla carta (i celebri schizzi), si sviluppa con la parola
(le sceneggiature spesso concepite con letterati quali Flaiano,
Zapponi, Guerra e messe in forma da Tullio Pinelli), prende vita
nella dimensione quasi circense del set e alla fine diventa
espressione e modello di una società. In questa traiettoria che
spesso sconfina nel sogno e nell'indagine junghiana della
psiche, l'arco espressivo di Fellini è trascorso dalla tenera
ingenuità dell'adolescenza, alla rappresentazione degli ultimi
come depositari della felicità (La strada), dalla provincia come
luogo dell'incanto (I vitelloni) al mostro della metropoli (La
dolce vita), dall'irrompere dell'inconscio (8 e 1/2) fino al
lungo e addolorato viaggio nella memoria e nell'archetipo (tutta
l'ultima parte della sua carriera tra Satyricon e Amarcord),
fino al canto finale della solitudine dei poeti (La voce della
luna). Si sa che il filo conduttore che collega tutte queste
fasi espressive è il circo come parabola della finzione e della
rappresentazione, ma è in verità il sogno come specchio della
vita a fare di Fellini un artista assoluto, l'unico capace di
vedere il mondo attraverso un filtro tanto personale quanto
universale.
Di fronte a questo monolite solo in superficie penetrabile da
altri è quasi impossibile rintracciare un'eredità condivisa che
vada oltre Fellini. La sua presa sul cinema internazionale è
tanto forte da aver spinto un'intera generazione di registi
americani a specchiarsi a farne un'icona e un modello più o meno
dichiarato. Paul Mazursky fece del suo "Alex in Wonderland" (Il
mondo di Alex, 1970) un' esplicita citazione del rapporto tra
vita e cinema che da Fellini aveva copiato. Martin Scorsese
disegnò i suoi antieroi di "Mean Streets" (1973) avendo ben
presente la struttura dei "Vitelloni", il sostrato cattolico
dell'Italia provinciale, il mostro metropolitano appena
trasfigurato in "Roma" dell'anno precedente. "Adaptation" e
"Essere John Malkovich" di Spike Jonze e Charlie Kaufman sono
omaggi espliciti al surrealismo visionario che i due leggono
nell'immagine felliniana (specie in "8 e 1/2"). Vincent Minnelli
paga il suo tributo nella rappresentazione della città eterna di
"Nina", Woody Allen si allinea con lavori come "Stardust
Memories" all'uso della psicanalisi come fotografia dell'io
diviso e Rob Marshall in "Nine" segue da presso un successo di
Broadway per ricreare il sogno circense tra "8 e 1/2" e "I
clowns". Ma è Bob Fosse il vero erede-complice di Fellini oltre
oceano tra "Sweet Charity" del 1969 che guarda a "Giulietta
degli spiriti", "Cabaret" (1972) che recupera l'eco de "La dolce
vita" e un capolavoro come "All that Jazz" (1979) che al Grande
Riminese è un vero tributo in chiave musical.
Come giustamente annota lo storico americano Peter Bondanella
gli influssi di questa sorta di cosmogonia interiore si
avvertono anche in Europa, sia pure con un diverso distacco
perché la generazione degli "autori" dopo la nouvelle vague
avverte più nettamente le suggestioni dei maestri neorealisti,
Rossellini in primis. Fa ovviamente eccezione Ingmar Bergman che
più volte ha ammesso di specchiarsi nel percorso - tanto diverso
quanto parallelo - dell'amico Federico. E farà eccezione
Francois Truffaut che in "Effetto notte" (1973) firma la sua
risposta a "8 e 1/2" costruendo il set come una simulazione
della vita. In Gran Bretagna Fellini trova invece un interprete
personale in Peter Greenaway tra la citazione in "Il cuoco il
ladro la moglie e l'amante" (1989) e l'esplicito omaggio di
"Otto donne e mezzo" (1999) mentre - e non sembri un paradosso -
è il danese Lars von Trier a ritrovare la segreta crudeltà
dell'ultimo Fellini nella sua rappresentazione di un mondo in
decadenza che ha perso coordinate e sembra smarrire umanità.
E in Italia? Quello che Andrea Minuz definisce il "cineasta più
politico" della nostra scena per la sua capacità di farsi icona
collettiva, riconoscibile da ogni ideologia nelle varie fasi
della sua carriera, è al centro di una serie di influenze
incrociate che ne accompagnano e seguono la storia personale.
Fellini è vicino a Rossellini fin dagli esordi del neorealismo,
ma poi affianca Lattuada al suo esordio come regista di "Luci
del varietà"(1951). Troverà in Lina Wertmuller una compagna di
strada fedele fin dai "Basilischi" che nel '63 si rifà ai
"Vitelloni" di 10 anni prima e poi nello stralunato realismo di
"Pasqualino sette bellezze". Avrà in Giuseppe Tornatore un
ammiratore più distaccato (ma le somiglianze tra "Nuovo cinema
Paradiso" e "Amarcord" sono volute), misurerà due eredi simili e
opposti in Matteo Garrone con la sua nostalgia di "Pinocchio" e
Paolo Sorrentino che con "La grande bellezza" si manifesta
esplicito continuatore del suo modello. Del resto il successivo
"Youth" (2015) è fitto di omaggi a Fellini e anche in "Loro"
(2018) non è difficile cogliere la chiave del realismo grottesco
che apparteneva al regista de "La città delle donne". Il
problema rimane però insoluto: Fellini si può citare, si può
certamente imitare, ma è quasi impossibile riprodurne la
pienezza oltre il cinema. Per un regista "normale" non è facile
accostarsi a un genio unico e farne propria l'esperienza, prima
interiore che estetica. Fellini è stato l'Italia e il paese si è
specchiato nei suoi sogni e nei suoi incubi. Ettore Scola rese
il più bello degli omaggi ("Che strano chiamarsi Federico",
2013), proprio per affermare che con la sua morte era calato un
sipario dal quale oggi filtrano solo pallidi luccichii.
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