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MAYLIS DE KERANGAL, ''FUGA A EST'' (FELTRINELLI, pp.96 -12,00 euro - Traduzione di Maria Baiocchi).
''Quelli vengono da Mosca e non sanno dove vanno. Sono tanti, più di un centinaio, giovani bianchi, anzi pure pallidi, smunti e rapati'', sono coscritti, ragazzi russi di leva che vengono portati a una destinazione lontana e che si immagina poco ospitale, nella temuta Siberia ''paese del gulag, perimetro proibito, zona senza parola e senza un volto, un buco nero''.
Siamo infatti su un treno che ha appena lasciato la grande stazione di Novosibirsk, forse il più celebre e mitizzato, quello della transiberiana. su quello stesso treno, a Krasnojarsk, è salita una giovane donna francese, Hélène, in fuga dal suo amante russo, Anton, che ha seguito sino lì, alla diga di Divnogorsk sull'Enisaj di cui è responsabile, luogo che non poteva fare per lei.
Lei è in fuga dall'amore, da se stessa, da una vita sbagliata, mentre Alesa sta meditando la fuga, pensa a come evitare l'occhiuta sorveglianza di Letchov, a come scappare dalla trappola di quel treno dal cui finestrino vede ''compatta, tenebrosa, oceanica, la foresta siberiana, e sprofondarci dentro sarebbe come entrare nell'acqua nera con pietre dentro le tasche, e Alesa vuole vivere''.
Il soldato cerca nascondigli in attesa di una stazione in cui scendere facendo finta di voler fumare una sigaretta, ma poi scivolare via mentre il treno riparte. Si nasconde in una bagno, ci prova, ma qualcuno lo vede, deve risalire, è agitato e non si arrende, sino a quando capita davanti allo scompartimento in cui Hélène, una giovane straniera, è sola e vi entra istintivamente, come già questo gli desse una qualche protezione quasi extraterritoriale.
Tra i due, dopo essersi presentati ognuno puntando il dito sul proprio petto e pronunciando il proprio nome, inizia un rapporto ambiguo ma che si fa presto intenso pur tra mille diffidenze come per un'intima attrazione esistenziale, suscitando in Hélène un desiderio di protezione, un rispecchiarsi, anche se al minimo gesto violento, istintivo di lui davanti al pericolo, lei trasale terrorizzata ma sempre accettando di ospitarlo e nasconderlo, anzi arrivando a dagli degli abiti civili perché possa non essere subito riconosciuto.
Attorno la vita inquieta e dal tempo che appare infinito di questo treno, gli odori, la gente e i destini più vari.
La de Kerangal, francese, autrice di ''Nascita di un ponte'' (Prix Médicis 2013) e poi del bel romanzo ''Riparare i viventi'', oltre che di un altro libro intitolato ''Lampedusa'' che forse dovrebbero leggere in molti, ha una modo di narrare insinuante che lega il lettore ai protagonisti, grazie a quella scrittura modernamente affabulatoria, inquieta, scandita, che è il fascino di questo racconto lungo, che scopriremo essere derivato da un radiodramma, quindi nato appunto per venir raccontato a alta voce e far riecheggiare il ritmo e il dondolio del treno in corsa.
Quello tra i due è un rapporto fatto di gesti primitivi, un colloquio di sguardi e sensazioni, senza praticamente parole, che uno non parla la lingua dell'altro, un colloquio fisico perché affidato ai segnali del corpo, al muoversi, al respirare, sempre un po' in guardia, eppure aperti, circondati da un mondo di cui non ci si può fidare, a cominciare dalla temuta Provodnitsa, la controllora e responsabile del loro vagone, col suo thè caldo sempre pronto e che dimostrerà una sua natura sorprendente, che aiuterà a andare verso il finale, all'arrivo a Vladivostok sulle rive nebbiose dell'Oceano Pacifico, col clima mite del mare che si apre davanti.
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